mercoledì 24 ottobre 2012

LA CRISI MOMENTO DI GRAZIA P. Timothy RadcliffeRadcliffe



Questo non è un periodo facile per la vita religiosa nella maggior parte dei continenti. Durante lo scorso anno, io ho preso la parola davanti a varie conferenze di religiosi in Asia, America latina, in Africa, in America del nord e in Europa e, si può dire che quasi dappertutto ci si pone la stessa domanda: la vita religiosa ha un futuro? È vero anche in Canada: numerose congregazioni sono minacciate di scomparire… Stiamo attraversando un passaggio stretto. Ritengo che la nostra vocazione di religiosi e religiose sia più importante che mai. Noi siamo chiamati a essere per l'umanità dei segni di speranza. Come religiose e religiosi attraversiamo forse un momento in cui nutriamo dei dubbi circa il nostro futuro ma l'umanità intera deve affrontare una grave crisi di speranza. Non voglio dire che tutto vada male, anche se c'è un'epidemia di suicidi tra i giovani. Voglio dire che i nostri contemporanei non hanno una storia da raccontare che offra speranza riguardo al futuro. Quando ero giovane, verso la fine degli anni '60, noi avevamo fiducia di vedere l'umanità evolversi verso un avvenire prodigioso in cui ci sarebbe stata la fine della guerra e della povertà. Tutto sembrava possibile.
Noi credevamo al progresso. Oggi, all'inizio di un nuovo millennio ci troviamo davanti alla crisi ecologica, alla diffusione del fondamentalismo religioso, al terrorismo, all'epidemia dell'Aids, al costante allargamento del divario tra ricchi e poveri. Molti stati africani sono sull'orlo del collasso. Di quali racconti di speranza dispongono i giovani? C'è quello di un disastro ecologico imminente e il racconto della guerra al terrorismo. Né l'uno né l'altro promettono un avvenire ai giovani. In molti paesi la caduta del tasso di natalità è disastroso. La gente ha paura di mettere al mondo dei bambini in un mondo senza futuro. In questo contesto, la vita religiosa è chiamata a essere un segno di speranza. Per noi religiosi e religiose, state certi, non si tratta di avere dei bambini. Il nostro genere di vita con i suoi voti è tuttavia una segno di speranza per l'umanità. Noi siamo una speranza perché abbiamo una vocazione. Questa vocazione ci chiama a entrare in comunità e ci invia in missione. La nostra vocazione è meravigliosa non perché noi siamo meravigliosi, ma perché è il segno della speranza meravigliosa di cui siamo testimoni per l'insieme dell'umanità. Voglio qui descrivere tre modi in cui la vita religiosa è segno di speranza: anzitutto con la nostra professione; in secondo luogo per la vita comunitaria; infine, brevemente, grazie alla nostra missione. 
Rispondere alla chiamata di Dio con piena fiducia Cominciamo dalla nozione di vocazione. Io sono stato attirato a entrare dai domenicani perché mi piaceva la missione dell'Ordine e mi piaceva avere dei fratelli. Ma, in definitiva, ciò non bastava. Sono diventato domenicano perché ero convinto che questa era la mia vocazione. Ero chiamato da Dio a seguire la via domenicana. Ma questa è l'espressione di una verità più profonda, vale a dire che ogni essere umano è chiamato da Dio. È Dio che ci chiama all'esistenza e ci chiama a trovare in lui la nostra felicità. Essere religioso vuol dire incarnare una convinzione fondamentale e portatrice di speranza nei riguardi dell'umanità. Noi siamo in cammino verso Dio. Forse non sappiamo niente di ciò che sarà l'avvenire dell'umanità, dei disastri e della violenza che ci sta davanti, se periremo sotto le bombe, oppure affogati dalla crescita del livello dei mari, bruciati dal riscaldamento climatico, ma sappiamo che Dio chiama a sé tutta la creazione.
Eccomi Tutto esiste perché Dio lo chiama ad esistere. Dio dice: sia la luce, ed essa risplende. C'è un bellissimo passaggio nel profeta Baruch: "Le stelle brillano dalle loro vedette e gioiscono; egli le chiama e rispondono: «Eccoci!" (Bar 3,34-35). L'esistenza di una stella non è soltanto un dato scientifico astratto. Le stelle dicono a Dio un sì gioioso. Ogni cosa che esiste è un sì a Dio. Ciò che vi è di curioso a proposito degli esseri umani, è che noi non diciamo "sì" unicamente col fatto della nostra esistenza. Diciamo sì a Dio con le nostre parole. Dio ci rivolge la parola e noi gli rispondiamo con le parole. È per questo che siamo stati creati, per rispondere con le nostre parole alla parola di Dio. Questa vocazione dell'essere umano è riassunta col bel termine ebraico Hineni, che vuol dire: "eccomi". Quando Dio chiama dal roveto ardente, Mosè risponde: eccomi. Quando Dio chiama Abramo perché gli sacrifichi Isacco, Abramo risponde: Hineni, eccomi. Quando Isaia sente una voce che chiede: "Chi manderò", risponde, "eccomi, manda me". Ma quando Dio chiama Adamo nel giardino, l'uomo non risponde "eccomi": egli va a nascondersi dietro i cespugli.
E'questa verità della vocazione umana che noi esprimiamo facendo la professione. Ci mettiamo nelle mani dei nostri fratelli e delle nostre sorelle, e diciamo il nostro sì definitivo. Eccomi. È qualcosa di più che accettare l'obbedienza a una regola. È qualcosa di più che impegnarsi a vivere un certo modo di vita. È un segno esplicito di cosa significhi essere un essere umano. Chiamarsi a vicenda Noi non diciamo "sì" soltanto nella professione. Per tutta la vita noi continuiamo a essere chiamati dai nostri fratelli e dalle nostre sorelle, quando siamo chiamati a esercitare una funzione nella comunità, a essere economo, o maestro dei novizi, o priore. Ci chiamiamo gli uni gli altri. La nostra obbedienza è un'obbedienza reciproca. E non si tratta qui soltanto di organizzare in maniera efficace la missione dell'Ordine. Si tratta di un assenso continuo che diamo a Dio: Hineni, eccomi. Dobbiamo chiamarci a vicenda al coraggio e alla libertà, a fare delle cose che non avremmo il coraggio di fare. I nostri fratelli e le nostre sorelle sono là per chiamarci a superare la paura, quando ci sentiamo paralizzati e bloccati. Un giorno mentre facevo una passeggiata con dei confratelli in Scozia, siamo giunti a una scogliera dove il sentiero scompariva. Bisognava andare avanti brancicando lungo un cornicione. C'era da aver paura, si era sospesi tra la roccia e le onde dell'Oceano. Una volta giunti dall'altra parte ci siamo accorti che il nostro fratello Gareth non c'era. Non sapevamo che soffriva di vertigini. Uno di noi dovette tornare indietro. per andare a ritrovarlo: era paralizzato dalla paura. Bisognò dirgli: «Gareth, metti la mano qui, là puoi andare avanti un metro, metti avanti l'altro piede». Fino a quando, finalmente, si trovò al sicuro. In tutto il nostro cammino in comunità noi ci chiamiamo l'un l'altro ed è in effetti la voce di Dio che chiama ciascuna e ciascuno di noi alla libertà e al coraggio, mentre non sappiamo cosa ci riservi il cammino, alla prossima curva. È rischioso. Bisogna imparare ad aver fiducia nella voce che ci chiama. È come quel tipo che guidava l'auto lungo una scogliera domandandosi se Dio esiste. Infatti, la domanda l'ha talmente distratto che è uscito di strada e si è trovato sbalzato fuori dall'abitacolo. Cadendo lungo la scogliera riuscì ad aggrapparsi a un ramo d'albero. All'improvviso la domanda sulla fede divenne urgente ed egli si mise a gridare: «C'è qualcuno lassù in alto?». Dopo un momento sentì una voce: «Sì, sono qui, fidati di me. Lascia il ramo, lasciati cadere e io ti afferrerò». Quel tipo rifletté un momento, prima di gridare di nuovo: «Non c'è nessun altro lassù?». Vivere l'incertezza nella gioia Il grande segno cristiano della speranza è l'ultima Cena. Gesù si è posto nelle mani fragili dei suoi discepoli. ha osato rendersi vulnerabile e fare dono di sé a delle persone che l'avrebbero tradito, rinnegato e abbandonato. Nella vita religiosa, noi prendiamo lo stesso rischio. Ci affidiamo a dei fratelli e a delle sorelle fragili, senza sapere che cosa faranno di noi. Ci mettiamo nelle mani di persone che non sono ancora nate e che saranno un giorno nostri fratelli e nostre sorelle. Il mio priore a Oxford è nato cinque anni dopo che io ero entrato nell'Ordine. Anche oggi, dopo oltre quarant'anni di vita domenicana io non so veramente che cosa i fratelli mi chiederanno. Siamo chiamati a vivere questa incertezza nella gioia. Il seme della mia vocazione religiosa è stata probabilmente la gioia inaspettata di un mio prozio benedettino. Gravemente ferito durante la prima guerra mondiale, aveva perso un occhio e la maggior parte delle dita, ma era esuberante di gioia, a condizione che mia madre non dimenticasse di servirgli un bicchierino colmo di whisky prima di andare a dormire. E anche se io non ero che un ragazzo, scommettevo che l'origine di questa gioia fosse Dio. L'abate primate dei benedettini, Notker Wolf, aveva invitato dei monaci giapponesi, buddisti e shintoisti a trascorrere due settimane al monastero di St. Ottilien, in Baviera. Quando fu loro chiesto che cosa li aveva colpiti, risposero: «La gioia. Perché i monaci cattolici sono così gioiosi?». La gioia è segno di speranza per tutti coloro che non vedono un futuro davanti a sé. Per i disoccupati, gli studenti che falliscono agli esami, per le coppie il cui matrimonio attraversa un momento difficile, per le persone che devono affrontare la guerra, la nostra gioia di fronte all'incertezza dovrebbe essere un segno di speranza, il segno che tutta la vita umana è in cammino verso Dio, qualunque siano le difficoltà che s'incontrano lungo la strada. Essere religioso dunque è non conoscere la storia della nostra vita. La maggior parte della gente ha delle carriere attorno a cui poter costruire la propria storia personale. Essi avanzano sulla scala delle promozioni. Il soldato semplice diventa sergente, il capitano sogna di diventare generale e l'insegnante direttrice di scuola. Ma noi non abbiano delle carriere. Qualunque sia il nostro ruolo nell'Ordine, non possiamo mai essere nient'altro che uno dei fratelli o una delle sorelle. In certo modo poco importa quello che facciamo. Quando la gente mi chiede cosa faccio attualmente, posso rispondere che faccio quello che tutti fanno, ossia che sono uno dei fratelli. Evidentemente, ci capita di avere l'impressione che i nostri fratelli non riconoscano ciò che siamo e ci chiamino a fare cose che sono una perdita di tempo. Può darsi che i nostri talenti non siano riconosciuti. In questo caso, bisogna parlare. Noi non siamo degli zerbini passivi. Non possiamo accettare un'obbedienza infantile che faccia di noi delle pedine che il superiore sposta a suo piacimento sulla scacchiera per riempire i buchi. Bisogna che ci sia dialogo e attenzione reciproca. Ma fa parte della nostra vocazione religiosa, come segno di speranza, conservare la gioia di persone la cui vita è in cammino verso Dio anche quando non si è trattati bene e non si è apprezzati nella giusta misura. San Giovanni della Croce riusciva a cantare anche dopo che i suoi frati l'avevano messo in prigione.

Ho ricevuto recentemente una lettera da un mio amico, un religioso anglicano. È uno che soffre di una malattia che lo porterà inesorabilmente alla paralisi totale. Questo grande insegnante sta per perdere la parola. Egli mi citava la frase di un grande uomo, Dag Hammarskjöld: «Per tutto ciò che è stato… grazie. Per tutto ciò che sarà… sì». Questa è la testimonianza della vita religiosa. Essere testimoni di speranza È vero che la vita religiosa attraversa, in molti luoghi, un'era di crisi. E molti religiosi e religiose attraversano, anch'essi, una crisi. Possiamo inquietarci dell'avvenire della nostra provincia o del nostro monastero. Possiamo aver l'impressione che la nostra vita cessi rapidamente di avere un significato. Ma possiamo essere segni di speranza per una generazione che vive essa stessa una crisi soltanto se saremo capaci di affrontare le nostre crisi nella gioia e nella serenità. Può far parte della nostra vocazione in quanto religiosi far fronte alle nostre crisi di vocazione come tempi di grazia e di vita nuova. In ogni Eucaristia, commemoriamo la crisi della notte del Giovedì santo. Gesù avrebbe potuto fuggire questa crisi, ma non l'ha fatto. Egli l'ha assunta e resa feconda. Se giungiamo al punto di non vedere più una strada davanti a noi, o siamo tentati di fare i bagagli e andarcene, è questo il momento in cui la nostra vita religiosa è sul punto di maturare. Come per Gesù nell'ultima Cena, è il momento di accogliere ciò che capita, nella fiducia che ciò porterà frutto. Questo fa parte della testimonianza di speranza che la nostra vocazione offre. Queste crisi possono giungere fino a lasciar intravedere la morte della nostra comunità. Molti monasteri nell'Europa occidentale sembrano non avere nessun futuro. Avremo il coraggio di vedere che ciò accada nella gioia? Quand'ero provinciale, andai a visitare un monastero la cui fine si avvicinava, il monastero di Carisbroke. Non rimanevano che quattro monache, di cui tre molto anziane. Uno delle suore mi disse: «Timothy, ma Dio non può lasciar morire Carisbroke, non è vero?». E l'ex provinciale che mi sedeva accanto rispose: «Ma egli ha lasciato morire anche suo figlio». Come possiamo noi essere dei testimoni della morte e della risurrezione se abbiamo paura di guardare in faccia la morte della nostra stessa comunità?». Dare la propria vita fino alla fine
Qualche anno si è tenuto un congresso a Roma sulla vita religiosa e molti si domandavano se l'impegno per tutta la vita era ancora un elemento essenziale alla vita religiosa. Io sono del tutto favorevole che le nostre comunità si aprano a ogni sorta di amici, di associati e di collaboratori e collaboratrici, ma continuo ad affermare che al cuore della vita religiosa ci deve essere il gesto coraggioso del dono della vita fino alla morte, usque ad mortem. È un gesto strano che dice la nostra speranza che la vita umana, nella sua totalità, fino alla morte e inclusa la morte, è un cammino verso Dio che ci chiama. Un giorno un fratello anziano sul punto di morire mi confidò che stava per realizzare una grande ambizione, quella di morire domenicano. A quell'epoca non rimasi molto impressionato da quell'ambizione, ma col tempo l'ho tenuta in grande considerazione. Egli aveva fatto dono della sua vita, nonostante le difficoltà incontrate lungo il cammino, e non l'ha mai ritirato. È stato un segno di speranza per i giovani. Ho sentito ripetere mille volte che non possiamo aspettare dai giovani che si impegnino in maniera definitiva, fino alla morte. È vero che i giovani vivono in un mondo di impegni a breve termine, sia nel lavoro sia a casa. L'americano medio esercita undici impieghi diversi durante la vita. Spesso i matrimoni non durano. È per questo che non c'è da aspettarsi che i giovani facciano la professione perpetua. Mi ricordo di un giovane fratello francese al quale fu chiesto, la vigilia della professione solenne, se si donava totalmente all'Ordine, senza riserve e per sempre. Si dice che abbia risposto: «Io mi dono totalmente e senza riserve, oggi. Ma chi sa cosa sarò tra dieci anni?». Ma è proprio perché viviamo in una cultura di impegni a breve termine che la professione fino alla morte costituisce un bel segnale di speranza. Essa parla della storia a lungo termine in cui ciascun essere umano è chiamato ad andare a Dio. È un gesto strano ma bisogna domandare ai giovani di fare dei gesti coraggiosi e un po' folle, e bisogna credere che essi possono, con la grazia di Dio, vivere di conseguenza. Recentemente quattro giovani hanno emesso la loro professione solenne nella mia provincia inglese. Diplomati, brillanti, energici. Ciascuno di loro avrebbe potuto avere una buona riuscita nel mondo, vivere un matrimonio felice e guadagnare molto denaro. Alcune giovani dicevano: «che spreco! Avrebbero potuto essere felici nel matrimonio… forse con me». (Non sono sicuro se qualcuna abbia detto lo stesso quando io ho fatto la mia professione!). Il fatto che essi si donano a Dio fino alla morte parla della nostra speranza per ogni essere umano. Chiamati a entrare in comunità Avere una vocazione, pertanto, vuol dire qualcosa di ciò che significa essere persone umane. Ma noi non siamo soltanto chiamati. Siamo chiamati a entrare in comunità e a essere inviati in missione. Ciascuno di questi movimenti, l'ingresso in comunità e l'invio in missione, esprime una verità circa la nostra speranza del Regno. Anzitutto la vocazione alla comunità. È un segno che Dio chiama tutta l'umanità a entrare nel Regno, un Regno nel quale non ci saranno né divisioni né violenza. La vocazione umana è una vocazione alla pace, "Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell'arte della guerra" (Is 2,4). Gesù è colui nel quale e per mezzo del quale è stato abbattuto il muro di inimicizia. Le nostre comunità dovrebbero essere un segno del Signore risorto, il quale disse ai suoi apostoli: "La pace sia con voi".
domando a dei giovani perché desiderano diventare domenicani, spesso rispondono perché cercano la comunità. Nel nostro mondo lacerato, molte persone vivono sole. Noi abbandoniamo le nostre collettività rurali per le grandi città. Dallo scorso anno, per la prima volta nella storia dell'umanità, più della metà degli esseri umani vivono in città. In paese, le persone conoscevano i loro vicini. Nelle strade, noi siamo invisibili. Le famiglie sono diventate più piccole. Molte persone non hanno dei fratelli e delle sorelle. Dio ha detto ad Adamo che non è bene che l'uomo sia solo, ma il mondo moderno è pieno di persone sole che aspirano a trovare una comunità. Ora, proprio perché la nostra società è piena di persone sole, la vita comunitaria può essere difficile. Non siamo abituati a condividere la nostra vita con molte altre persone. Io sono cresciuto in una famiglia di sei figli, con i miei genitori, la nonna e altre persone. Ho imparato che mia madre mi amava anche quando aveva l'aria di dimenticare il mio nome. Di conseguenza, ciò che ho trovato entrando in noviziato non era diverso dalla vita di casa mia. Tuttavia, capita anche a me di trovare difficile la vita comunitaria. Perciò, è il desiderio di una comunità che attira molte persone alla vita religiosa ed è la difficoltà della vita comunitaria la causa per cui alcuni non rimangono. La vita comunitaria, segno del Regno Ma è la gioia e, allo stesso tempo, la sofferenza della vita comunitaria che parlano del Regno. Ho detto che la gioia è un elemento essenziale della nostra vocazione. Ma è anche un elemento della testimonianza che noi diamo del Regno vivere con delle persone che sono diverse da noi, che hanno altre teologie, altre opzioni politiche, che amano dei cibi diversi e parlano altre lingue. La vita assieme a loro potrà a volte essere meravigliosa, ma sarà anche difficile. Con essi potremmo essere tentati di trasformare le nostre falci in spade, anziché il contrario. Ma la vita comune è un segno del Regno proprio a causa delle nostre differenze. Una comunità di persone che pensano tutte alla stessa maniera non è un segno del Regno. Essa non significa altro che se stessa. Io ho trascorso un anno in Francia come studente domenicano. È stato insieme meraviglioso e terribile. Un giorno ero seduto con quattro domenicani francesi molto intelligenti i quali non sembravano attribuire nessuna importanza a quello che io dicevo, così che troncai la conversazione dicendo: «Ora capisco perché Cartesio era francese. Il motivo è perché in Francia, se uno non prova di esistere, non c'è nessuna ragione di credere che egli esiste». Tuttavia è vivendo con questi domenicani francesi che ho scoperto che non possiamo diventare segni del Regno se non sopportando e gustando la differenza. Il segno più forte che ho avuto di tutto questo l'ho potuto costatare con mio fratello Yvon, durante un viaggio in Rwanda e in Burundi negli anni difficili. Yvon sa molto meglio di me fino a che punto era difficile. È duro sedersi a tavola e in chiesa con delle persone i cui fratelli hanno assassinato i vostri fratelli e le vostre sorelle. Ma questa sofferenza è anche un'espressione di speranza. La tentazione per le nostre società è di cercare la comunità con delle persone che la pensano come noi, che condividono le nostre opinioni, i nostri pregiudizi e il nostro sangue. I conservatori frequentano dei conservatori e i progressisti dei progressisti. Gli anziani sono mandati in case per anziani, gli adolescenti trascorrono il loro tempo con altri adolescenti e così via. La signora Thatcher aveva l'abitudine di informarsi delle persone domandando:«Sono dei nostri?». Bisogna rifiutare questa tentazione. Invece di essere omogenei come un blocco di gelato alla vaniglia, dovremmo essere come una casseruola dove la varietà dei sapori danno il gusto. Allacciare amicizie al di là delle divisioni In molti paesi la Chiesa è profondamente polarizzata tra i cosiddetti conservatori e progressisti. C'è una vera ostilità, una vera collera verso coloro che sono "dell'altra parte". Il nostro ruolo profetico consiste nel cercare di intrecciare amicizie al di là delle divisioni. L'opposizione tra destra e sinistra, fra tradizionalisti e progressisti risale all'epoca dei Lumi nel secolo diciottesimo e non ha niente di cattolico. Noi siamo tutti necessariamente allo stesso tempo conservatori, attaccati ai Vangeli e alla tradizione, e progressisti, in attesa del Regno. È vero che certuni hanno dei temperamenti più conservatori o più progressisti, ma per noi non può esserci opposizione fondamentale e irriducibile fra tradizione e trasformazione. Di conseguenza, nelle nostre comunità dobbiamo rifiutare di lasciarci dividere in campi opposti. Una delle sfide consiste nel superare il divario tra generazioni. Nella mia comunità di Oxford sono rappresentate quattro generazioni. C'è un frate anziano che è stato formato secondo la tradizione classica prima del concilio. Noi siamo quattro o cinque della mia generazione ad aver vissuto gli anni esaltanti e tumultuosi del post-concilio. C'è un gruppo più numeroso che viene da quella che a volte è chiamata la "generazione di Giovanni Paolo II", in reazione contro quello che ritenevano come il liberalismo selvaggio della mia generazione. E ora c'è la "generazione "Y" tra i 25 e i 30 anni che è ancora un'altra cosa. Una comunità non può essere fiorente se non ha il coraggio di accogliere i giovani, interpellarli e lasciarsi interpellare da essi, sapendo che non saranno mai come noi. Molte congregazioni stanno per morire perché non accettano che i giovani siano diversi da noi. Quando io ero ancora un giovane frate, avevamo un meraviglioso vecchio domenicano chiamato Gervasio: era un grande studioso che discuteva spesso contro le folli idee dei giovani ma quando giungeva il momento di votare, si allineava sempre con noi perché senza i giovani non c'è futuro. La nostra capacità di tollerare la differenza e di giungere ad apprezzarla fa parte anch'essa della testimonianza che diamo alla Chiesa. Il concilio Vaticano II ha posto l'accento sulla chiesa locale, riunita attorno al vescovo. Va molto bene ed è molto bello. Ma la chiesa gerarchica ha bisogno anch'essa dei religiosi con i loro diversi carismi e le loro differenti vocazioni. Ha bisogno di contemplativi che resistono all'affarismo del mondo, e di religiosi che lavorano con i poveri e gli esclusi, o che svolgono un apostolato intellettuale. Abbiamo bisogno dell'ammirevole diversità delle spiritualità religiose: francescana, gesuita, domenicana, carmelitana, ecc. La tentazione per la chiesa gerarchica è di tendere all'uniformità. L'unità ha la tendenza a diventare imposizione dell'uniformità. Ma, come abbiamo visto, una comunità omogenea non è un buon segno del Regno. Pertanto, le comunità religiose possono, con la loro eccentricità, aiutare la Chiesa a mantenere la rotta verso il Regno. È stato sempre così fin dall'epoca in cui i padri e le madri del deserto scelsero il loro strano modo di vivere, più di milleseicento anni fa. Noi siamo come i buffoni delle vecchie corti reali che avevano la libertà di parlare francamente e anche di prendere in giro il sovrano. Se manca questa libertà, la Chiesa muore. L'invio in missione Noi non siamo solo chiamati e entrare in comunità, ma anche inviati in missione. Anche questo parla del Regno e della nostra speranza per l'umanità. Gesù è stato inviato a noi dal Padre. Al termine di ogni messa, noi siamo inviati. È un segno dell'amore di Dio che non dimentica nessuno e che riunirà l'umanità intera nel Regno. Sono stato profondamente toccato da una conversazione con un fratello chiamato Pedro, in Amazzonia. Era un uomo istruito che sapeva fare una quantità di cose. Invece di questo, accettò di essere destinato a un ministero in un angolo remoto della giungla. Egli trascorreva là gran parte del suo tempo camminando e andando in canoa a visitare delle piccole collettività di indigeni sconosciuti al resto del mondo. Dedicandosi a queste persone, in certo senso, Pedro scompariva, condividendo la loro invisibilità. Ma egli trovò qui la sua gioia perché questa era la sua vocazione. Era un segno che queste popolazioni che non avevamo mai notato non erano dimenticate da Dio. Prendendovi cura degli esclusi voi siete un segno che Dio non si dimentica mai di nessuna persona.
Inviarsi gli uni gli altri È significativo che Pedro non abbia semplicemente scelto di andare là. È stato mandato. È il fatto di essere inviato che ne fa un segno dell'attenzione personale di Dio e non una carriera come un'altra. Oseremmo noi inviare noi stessi o essere inviati? Molte congregazioni religiose non hanno più il coraggio di farlo. Durante una riunione negli Stati Uniti, una suora mi confidò di avere vent'anni di vita religiosa e che mai nessuno le aveva chiesto di fare questa o quella cosa. Può scegliere la missione che vuole. Ha un bel da dire come Isaia: "Eccomi, manda me", ma non c'è nessuno che lo faccia. Perché certe congregazioni hanno paura di inviare? Sono parecchie le ragioni. Certi superiori preconciliari erano tirannici e decidevano in maniera arbitraria: i membri ne sono rimasti talmente feriti che oggi i responsabili esitano a inviare qualcuno. Dopo tali abusi del voto di obbedienza, non abbiamo più il coraggio di inviare. Un'altra ragione è la scomparsa della missione condivisa in molte congregazioni che non gestiscono più ospedali, scuole o collegi, che si sono rivolte verso le parrocchie per esercitare l'apostolato e sono state assorbite dalle strutture della chiesa locale. Non c'è quindi più una missione dove inviare le persone. Ma io sono convinto che se si vuole che la vita religiosa diventi di nuovo fiorente, bisogna riavere il coraggio di inviarci gli uni gli altri, poiché altrimenti non giungeremo mai a essere un segno della memoria di Dio. Io non sarei mai entrato dai domenicani se mi avessero detto che potevo fare quello che volevo. E i giovani non verranno oggi a meno che sappiano che domanderemo loro di compiere delle pazzie, delle cose che potrebbero superare le loro capacità. Gesù è stato inviato per incarnare il volto del Padre. Egli conosceva la gente. Incontrare Gesù vuol dire sempre incontrare qualcuno che ci ha riconosciuto per primo. Egli riconosce Natanaele, e quindi anche Natanaele lo riconosce. Riconosce Zaccheo sulla pianta. Riconosce Maria Maddalena nell'orto e allora anch'essa lo può riconoscere: "Maria - Rabbunì". Un giorno a Lima ho trovato una foto di un bambino di strada. Sotto la figura c'era scritto: «Saben que esisto, pero no me ven», «Sanno che esisto ma non mi vedono». La gente sa che egli esiste in quanto problema, come minaccia, ma non lo vedono. I religiosi e le religiose sono inviati negli ambienti più dimenticati, per essere il segno del Dio che non dimentica nessuno e che riconosce i volti. Avere fiducia 
In conclusione: in quest'epoca in cui l'umanità soffre di una crisi di speranza, la vita religiosa può essere un segno del Regno. Noi siamo un segno anzitutto in forza della nostra vocazione. Noi rendiamo visibile la vocazione di tutta l'umanità che è chiamata al Regno. Siamo un segno del Regno in quanto chiamati a entrare in comunità e osando vivere con persone diverse da noi. In maniera profetica, rifiutiamo la sicurezza di un focolare composto di persone che la pensano come noi. E siamo un segno in quanto inviati in missione fuori della comunità, per significare l'amore e la memoria infinita di Dio. Essere un segno di questo genere è qualcosa che ne vale la pena. La Chiesa e la società hanno più che mai bisogno di questo segno. Perciò abbiamo fiducia. Non siamo finiti!

(Da TESTIMONI 9 / 2009 )